Giovanni Giunco e i primi passi di un cronista sportivo improvvisato
Roseto degli Abruzzi, anni '90. All'epoca ero un ragazzo con più passione che esperienza. Incontrai per la prima volta un “Signore” che era il presidente del Roseto Basket: Giovanni Giunco.

No, non era un uomo qualunque.
Era quella razza di presidente che non ti guarda, ma ti squadra.
Ti scruta come si osserva un terreno ancora da dissodare.
Quando gli proposi di seguire il Roseto con le radiocronache (in un'era dove lo "streaming" era roba da film di fantascienza), mi accarezzò con uno sguardo che era metà sfida e metà opportunità.
“Va bene, viaggerai con la squadra in trasferta, per il resto arrangiati", mi disse.
Quelle parole risuonarono dentro di me come una laurea, un lasciapassare, una benedizione mascherata da apparente indifferenza.
E io, figlio di una terra dove l'orgoglio corre più veloce del sangue, raccolsi la sfida.
Avevo l'ardore dei vent'anni, quella roba che ti fa credere che l'impossibile sia solo un optional, una sfida da aggirare con un sorriso e due parole giuste.
Cercai sponsor come si cercano funghi nei boschi: con pazienza, intuito e ostinazione.
Radio Luna di Pescara e Radio Activity di Castelnuovo divennero i miei complici in quella avventura nell'etere.
Quando mi chiesero della mia esperienza pregressa risposi con quella faccia da bravo ragazzo che sa il fatto suo: "Ma certo, è il mio pane quotidiano!".
Bugia colossale, ma chi non ha mentito almeno una volta nella vita?
In realtà era un rischio calcolato perché, in cuor mio, sapevo che avrei potuto farcela.
Avevo giocato a basket a livello giovanile, avevo il patentino di allievo allenatore (mai usato) e il mio vocabolario personale all’epoca era già discreto.
Soprattutto, avevo Roseto nelle vene.
La prima radiocronaca fu un'alchimia di sudore ed emozione.
Ero più teso e sudato dei giocatori in campo, ma funzionò.
E Giovanni Giunco?
Lui ti metteva alla prova, ti lanciava nel vuoto e aspettava di vedere se sapevi volare.
Ogni lunedì mattina, dopo le trasferte, il rituale era sacro.
Passavo in sede e venivo accolto dal suo sorriso sotto i baffi.
"Sette meno, questa settimana", diceva.
Mai un dieci pieno, mai una lode scontata: il bastone e la carota, era quello il “Manuale Giunco”.
Stava semplicemente insegnandomi che ogni errore è solo un apprendistato, ogni rischio una lezione.
C'è da dire che io, comunque, ogni volta mi auto-assolvevo ripetendo a me stesso che la perfezione non è di questa terra.
Tirava fuori gli appunti, presi ascoltando la radiocronaca.
Annotava ogni respiro, ogni dettaglio.
"Al diciottesimo hai dimenticato il punteggio", oppure "Quel giocatore ha segnato 20 punti, non 18".
Non era critica, era una lezione mascherata.
"La radio non è la televisione", ripeteva con quella voce che sembrava scavata nei canyon dell'esperienza.
"Devi far vedere ai radioascoltatori la palla che rimbalza, i movimenti sul parquet".
Insegnamenti cuciti addosso come un vestito su misura.
Giovanni Giunco mi voleva bene, ne sono sicuro.
Quello era il suo modo di dimostrartelo: non con le lodi facili, ma con quell'attenzione ai dettagli che ti faceva sentire importante.
Ogni volta che uscivo dalla sua stanza, magari con un mezzo sorriso e il solito “otto meno meno”, sentivo di aver imparato qualcosa di nuovo.
In fondo, lui era così: uno che ti lasciava crescere, senza mai lasciarti solo.
Era più di un presidente: era un maestro di vita che usava lo sport come linguaggio universale.
Sapeva come tirare fuori il meglio da chi aveva davanti, fosse un giocatore, un cronista o un semplice appassionato di basket.
E io, a quei tempi, ero un po’ tutto questo.
Nella sua lunga carriera di dirigente sportivo, Giovanni Giunco ha ricevuto numerosi riconoscimenti, ma il suo vero premio era vedere crescere le persone: spronarle, credere in loro anche quando loro stesse non ci riuscivano.
E se oggi lo sport mantiene un'anima, lo dobbiamo soprattutto a figure come lui.